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Il tormentone Inserito da arabafenice Lunedì, 04 settembre 2006 alle 00:00:00 CEST
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Puntualmente
ogni anno, più o meno nello stesso periodo, si discute sempre delle
medesime cose e, purtroppo senza avere mai approfondito, nel frattempo,
la conoscenza del problema. Per questo riteniamo di fare cosa utile
ripubblicando questo articolo di L.Gallino estratto dal libro
consigliato in nota.
LE VARIABILI NASCOSTE DEL DIBATTITO SULLE PENSIONI
Vi sono fenomeni della natura di cui è possibile costruire una
spiegazione, seppur complicata, solo se si assume che esistano delle
variabili nascoste alla percezione dell'osservatore. Esistono invece
dei fenomeni sociali che vengono spiegati con grande semplicità dallo
stesso osservatore nascondendo al pubblico la maggior parte delle
variabili. Rientrano in questa categoria le proposte di riforma delle
pensioni ipotizzate dal governo. Esse fanno seguito alle sollecitazioni
da tempo trasmesse da istituzioni quali la Commissione Europea,
l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, il Fondo
Monetario Internazionale, la Banca d'Italia, la Con-findustria, di
recente anche la Corte dei Conti.
In tali proposte e sollecitazioni sono sempre poste in primo piano due
variabili il cui peso nessuno può negare. La prima è l'invecchiamento
della popolazione. Da un lato è aumentato e continuerà ad aumentare il
numero di persone che vivono più a lungo che non una o due generazioni
fa; dall'altro, la caduta dei tassi di natalità ha fortemente ridotto
il numero dei giovani che entrano nel mondo del lavoro. Perciò i
contributi versati via via dagli occupati non basteranno più, in
prospettiva, a pagare le pensioni di chi ha lasciato il lavoro. La
seconda variabile è l'incidenza delle pensioni pubbliche sul Pil. Essa
toccava già al 2000 il 13,8 per cento, ma potrebbe salire di quasi due
punti tra il 2030 e il 2040, per ridiscendere poi al 14 per cento verso
il 2050. Il bilancio dello Stato, si ricorda, non potrebbe sopportare
un simile onere, men che mai a fronte delle esigenze del patto di
stabilità adottato dalla UE.
Se ci si limita a considerare le suddette variabili, come in genere
avviene, gli interventi da compiere sul sistema pensionistico appaiono
predefiniti e inevitabili. Bisogna elevare al più presto l'età di
pensionamento, a cominciare dalle pensioni d'anzianità. Al tempo stesso
si dovrebbe tagliare il livello delle pensioni a venire, mediante
dispositivi quali, per dire, il passaggio generalizzato al metodo
contributivo, che porta a calcolare la pensione non sulla base della
retribuzione degli ultimi anni di lavoro, bensì sulla base di quanto
effettivamente versato nell'arco della vita lavorativa. In tal modo si
otterrebbe di farle scendere di parecchi punti percentuali al disotto
del livello attuale, che corrisponde in media a un po' meno del 70 per
cento dell'ultima retribuzione percepita (il che non è propriamente un
lusso). In questa direzione si muovono appunto i progetti di riforma
approvati dal governo.
Ciò nondimeno il problema pensioni non è formato solamente da variabili
quali l'invecchiamento della popolazione o l'incidenza della spesa
pensionistica sul Pil. Ve ne sono parecchie altre che dovrebbero
entrare a pari titolo nel pubblico dibattito. Una di queste è la
produttività, intesa come quota di Pil prodotta per ora di lavoro. Si
stima che essa cresca, in media e a lungo periodo, tra l'1 e il 2 per
cento l'anno. Rivisitate tenendo presente questa variabile, le
previsioni circa il futuro andamento del rapporto tra le persone in età
lavorativa (15-64 anni) e gli over 65 che si trovano nei rapporti della
Ce perdono gran parte della loro drammaticità. Infatti, ammesso che si
passi dalla situazione odierna - quattro persone in età lavorativa per
un anziano - a un rapporto di 2 a 1 al 2050, l'aumento cumulativo della
produttività significa che i due lavoratori del 2050 produrranno una
quota di Pil, in termini reali, all'incirca equivalente a quella dei
quattro lavoratori di oggi. I due lavoratori di domani non faranno
quindi più fatica dei quattro di oggi a sopportare l'onere di pagare la
pensione a un anziano.
Si può obiettare al riguardo che non è pensabile che tutto l'incremento
di produttività se ne vada nel finanziare le pensioni del futuro.
L'obiezione starebbe in piedi, se non inciampasse subito in un'altra
variabile nascosta, il peso relativo dei redditi da lavoro sul Pil.
Secondo vari indicatori esso è fortemente diminuito negli ultimi due
decenni. Una ricerca pubblicata a metà 2003 dall'Ires-Cgil stima che la
quota del monte retribuzioni lorde sul Pil abbia perso in tale periodo
oltre 6 punti percentuali, scendendo dal 36,1 per cento al 30 per
cento. Un'altra ricerca dell'Università di Pavia ha calcolato in oltre
7 punti percentuali la riduzione della quota di Pil disponibile alle
famiglie consumatrici negli anni '90.
Sei-sette punti di Pil non sono inezie: in moneta attuale equivalgono a
80-90 miliardi di euro l'anno. Ora, poiché le pensioni non sono altro
che retribuzioni differite, un taglio alle pensioni aggiungerebbe col
tempo a tale salasso, già subito dai redditi da lavoro, un'altra
sottrazione dell'ordine di decine di miliardi di euro l'anno. Anche dei
liberali come Ronald Dworkin, Michael Walzer, o Amartya Sen, avrebbero
difficoltà ad ammettere che saremmo qui in presenza di eque forme di
uguaglianza, o di un'accettabile giustizia sociale.
Vi sono poi alcune variabili, pur esse finora nascoste nel dibattito
sulle pensioni, identificabili nella qualità del lavoro che le persone
svolgono, e nell'uso della forza lavoro che le imprese fanno. Si
pretenda da una persona di svolgere per decenni un lavoro che a causa
del modo in cui è organizzato e dell'ambiente in cui ha luogo è
logorante per le braccia e per la mente, o è ciecamente subordinato e
ripetitivo, o tutt'e due le cose insieme. Non ci si dovrebbe stupire se
appena si avvicina a maturare i requisiti necessari quella persona
stessa si accinge ad andare in pensione, anche se è ancora
relativamente giovane. Naturalmente non v'è dubbio che realizzare forme
di organizzazione del lavoro più rispettose delle persone, dei loro
bisogni di creatività, di un lavoro che abbia un senso, di
riconoscimento, sia assai più difficile che non emanare un decreto che
impone loro di andare in pensione due o cinque anni più tardi.
Quanto alle imprese, sarebbe opportuno richiedere a esse un piano
dettagliato in cui spiegassero come pensano di conciliare le loro
insistite richieste di allungamento dell'età lavorativa, con le loro
pratiche quotidiane di assillante ricerca di forza lavoro sempre più
giovane. Le ragioni di tali pratiche sono chiare: i giovani posseggono
nozioni culturali e tecniche più aggiornate. Soprattutto costano meno.
Ma occorrerebbe pur mettere riparo, almeno sul piano della forma, a una
situazione che vede il massimo dirigente di un'azienda tenere a un
convegno una relazione circa l'assoluta necessità di ridurre
l'incidenza del carico pensionistico sul Pil, elevando fortemente l'età
di pensionamento in modo da recuperare risorse per «la competitivita e
lo sviluppo»; intanto che, lo stesso giorno, il suo direttore del
personale spiega a un tecnico, un quadro, un operaio, o una dirigente,
che a quarantacinque anni le loro competenze sono ormai obsolete, ergo
in azienda non c'è più posto per loro.
Introdurre nel dibattito sulle pensioni le variabili finora nascoste
non aiuterebbe presumibilmente ad accelerare una riforma del sistema,
quand'anche si continuasse a reputarla indispensabile. Ma potrebbe
servire a dimostrare che essa è forse meno urgente di quanto non si
dica. Soprattutto conferirebbe maggior equilibrio al dibattito. Finora
la scena, si dovrebbe riconoscere, è stata dominata dagli argomenti
cari, e utili, a una parte sola.
[pubblicato su Repubblica l'8/7/2003]
Nota: Luciano Gallino , Italia in frantumi, 10.20 euro (sc.15%)
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problemi di informazione (Voto: 1) da paolog Mercoledì, 06 settembre 2006 alle 15:54:22 CEST (Info Utente | Invia un Messaggio) http://virtuale.bondeno.com/paolog | Dal
momento che ieri ero tra gli automobilisti bloccati sul raccordo
Ferrara-mare, mi sono fatto diverse domande: una era quanto incidono i
ritardi sul PIL? Oggi ritardano le dive a Venezia, gli azzurri agli
aeroporti, gli artigiani sulle strade, i vacanzieri i ferie ecc. ecc.
Tutti i ritardi (per non parlare di quelli della sanità), sono
diventati fisiologici e lo dimostra la rassegnazione di quegli
automobilisti rimasti bloccati per due ore senza nessuna comunicazione
ufficiale ( e, con 1024 cellulari ogni 1000 abitanti, in Italia i mezzi
di comunicazione non mancano) a parte un passa-parola desunto da
Isoradio.
Come ne siamo usciti? I giornali non lo riportano, ma all'italiana
naturalmente: a marcia indietro!
Senza scherzi, per circa 1 Km, e vi assicuro che vedere un bilico in
retromarcia che ne sorpassa un altro che ha dato forfait è uno
spettacolo impressionante... |
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